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La lezione di Cristian Brocchi: crescere, sbagliare, rialzarsi

Cristian Brocchi

Nel cuore di un calcio che spesso dimentica il valore dell’educazione sportiva, Dr Podcast – Audio Factory internazionale con sedi a Londra e Milano – lancia una nuova, preziosa produzione: “Brocchi si nasce, campioni si diventa”podcast condotto da Cristian Brocchi e articolato in nove episodi che esplorano il calcio giovanile da dentro. Un viaggio autentico e necessario, tra allenatori, educatori, dirigenti e genitori, alla ricerca di una nuova cultura sportiva.

Abbiamo incontrato Cristian Brocchi, protagonista e autore della serie, per parlare di talento, sacrificio, del ruolo di Milano nella sua formazione e delle riforme necessarie per il futuro del calcio italiano.

Cristian, il podcast si apre con una frase forte: “Ci sono molti più Brocchi che Cristiano Ronaldo”. Che cosa significa davvero, oggi, essere un campione?

«Significa inseguire un sogno con volontà autentica e costanza. Oggi i ragazzi hanno qualcosa in più rispetto alla mia generazione, vivono una società diversa. Il problema siamo noi adulti, che continuiamo a dire “ai miei tempi”, ma quei tempi non esistono più. Dobbiamo adeguarci a loro, trovare nuove chiavi per trasmettere valori. Oggi è tutto più facile, ma la bella vita del calciatore arriva dopo un percorso durissimo e selettivo. I social hanno creato un ambiente tossico: chi non ha mai fatto nulla si sente in diritto di giudicare chi ce l’ha fatta. Certo, la fortuna esiste, ma per arrivare servono qualità superiori alla media, impegno quotidiano, sacrifici, cura dei dettagli».

Nel primo episodio ripercorri la tua carriera: in quali momenti ti sei sentito più utile come uomo, anche senza alzare trofei?

«Ho sempre dato tutto per la squadra, mai messo me stesso davanti agli altri. Sono sempre stato titolare ovunque, tranne che al Milan, dove avevo davanti campioni assoluti. Ma proprio lì ho imparato a ritagliarmi uno spazio con umiltà, accettando di non essere protagonista per contribuire alla vittoria collettiva. Anche quella è una qualità. Se avessi voluto fare la “prima donna”, magari non avrei avuto la carriera che ho avuto. Ho giocato semifinali di Champions da titolare, e non ho rimpianti».

Milano è la città dove sei nato e cresciuto calcisticamente. Che ruolo ha avuto nella tua formazione, dentro e fuori dal campo?

«Fondamentale. Milano è meta ambita, grazie a Milan e Inter. Ma è anche una città che ti consente di vivere la tua vita privata in modo tranquillo. Giocare a San Siro è difficilissimo, ma una volta fuori dallo stadio riesci a staccare, senza l’ansia e lo stress che trovi in altre piazze. Questo aiuta moltissimo, soprattutto per chi è giovane».

Cristian Brocchi e Marco Cattaneo
Cristian Brocchi e Marco Cattaneo

Il podcast mette al centro educatori, dirigenti e genitori. Dove si rompe oggi, secondo te, il dialogo tra questi adulti e i ragazzi?

«Il problema è che non c’è una linea chiara. Faccio sempre il paragone con la scuola: ci sono professori con cui tuo figlio si trova bene e studia con entusiasmo, e altri con cui non riesce a creare un legame. Nel calcio è lo stesso. Se hai un allenatore che diventa un punto di riferimento, puoi davvero ottenere risultati. Ma se già a 13-14 anni dici a un ragazzo che è scarso, per me è follia pura. Il ruolo dell’allenatore è aiutare a migliorare, non spegnere un sogno».

Milano è spesso raccontata come capitale dell’alta prestazione. Può ancora essere un modello educativo nel calcio giovanile?

«I successi arrivano dall’alto, sempre. Se un dirigente mette come obiettivo la vittoria del campionato, allora l’allenatore punta solo a vincere. Così facendo, si creano squadre forti fisicamente ma non si cresce il talento. E i più piccoli, quelli tecnici ma ancora in crescita fisica, finiscono ai margini. Si perde troppo in questa logica. Servirebbe un approccio diverso».

Nel tuo episodio “Allenatori e giovani: crescere insieme” parli del rapporto tecnico-giocatore. Qual è la qualità imprescindibile per chi lavora con adolescenti?

«La sintonia. Devi entrare in empatia con il ragazzo. Poi certo, ogni allenatore ha le sue preferenze. Ma il compito non è selezionare, è formare. Anche chi sembra indietro può diventare grande, se c’è fiducia reciproca e un ambiente che stimola».

Parli spesso di “seconda chance”: quanto è importante sbagliare e potersi rialzare senza essere scartati troppo in fretta?

«È fondamentale. Anche i professionisti hanno annate difficili. Figuriamoci un ragazzo. Fidanzatina, problemi familiari, scuola, poco tempo libero… se in quei momenti non li supporti, non cresceranno mai. E invece spesso li si etichetta come “non adatti”. Nei dilettanti è diverso: pagano una quota e giocano comunque. Nei settori giovanili professionistici invece, se non rendi, vieni messo da parte. Io dico: perché non stabilire stipendi uguali per tutti fino alla Primavera? Così forse qualcuno si specializzerebbe davvero su certe fasce d’età, e si eviterebbe l’ossessione del risultato».

Se potessi cambiare una sola cosa nel calcio giovanile italiano, da domani mattina, quale sarebbe?

«La metodologia di lavoro. Si pensa troppo alla partita della domenica e poco alla formazione. Dobbiamo insegnare meglio, dare strumenti ai ragazzi. Se lavori un’ora e mezza e solo un’ora è tecnica, non basta. I nostri ragazzi sono indietro rispetto a chi lavora con tecnica situazionale e movimenti integrati. Serve più visione, più qualità nel lavoro quotidiano, più attenzione alla crescita individuale. Il talento va costruito».

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